“Adesso raccogli le tue cose e scompara per sempre dalla vita di mio figlio”: come la donna che era diventata una madre per me si è trasformata nel mio incubo peggiore
A quattordici anni, sognavo che Adriana De Luca mi adottasse. La madre del mio compagno di classe, Luca, elegante, gentile, curata in ogni dettaglio, era tutto ciò che mi mancava nella vita. Mia madre biologica ormai era caduta in un alcool senza ritorno, mio padre sparito da anni, e la mia casa era diventata una scatola puzzolente di fumo e urla. A casa di Luca, invece, c’erano calore, ordine, il profumo di cannella al mattino.
Adriana mi invitava spesso a dormire da lei. Mi insegnava come usare gli assorbenti, come truccarmi, mi diceva che meritavo di più. Mi confidavo con lei, mi comprava vestiti, mi curava le febbri e mi abbracciava quando prendevo il primo dieci in italiano. Pensavo: vorrei che fosse sempre così. E promettevo a me stessa che un giorno l’avrei ripagata di tutto.
Luca era più grande di me di tre anni. Dopo il liceo, se ne andò a Milano per l’università, mentre io entravo all’Accademia di Belle Arti a Firenze, da sola, con una borsa di studio. Ero riuscita anche grazie ad Adriana, che mi aveva mandato dei soldi per non farmi sentire un’emarginata tra le compagne, comprandomi un computer e un cappotto invernale. Lavoravo in una pasticceria e vivevo modestamente, ma felice.
Con Luca ci rincontrammo per caso, mentre io ero al terzo anno e lui già lavorava in un’azienda importante, tornato a casa per le vacanze. Tra noi scoccò qualcosa, come se tutto avesse finalmente un senso. Lui insistette perché smettessi di lavorare: “Devi concentrarti sugli studi, non sgobbare per quattro spicci”. Andammo a vivere insieme in un appartamento che suo padre gli aveva comprato. Mi chiese solo una cosa: “Non dirlo a nessuno. E soprattutto a mia madre”. Non capivo, ma accettai.
Quando rimasi incinta, lui andò dai suoi genitori per dirglielo. Tornò cupo, distante. “Non sono contenti”, sussurrò. Ci sposammo in municipio, senza festa, senza anelli. Non mi importava: ci saremmo stati io, lui, e il nostro bambino.
Poi arrivò quel giorno. Stavo preparando la cena. Mancava un mese al parto. Nella tromba delle scale sentii una chiave girare, e improvvisamente Adriana era lì, in casa. Ma non era la donna che mi aveva salvato anni prima: era un’estranea, con gli occhi pieni di veleno.
“Ti sembra il modo di sistemarti alla bene meglio?” sibilò. “Una come te, senza un soldo, senza dignità! Incinta! Come hai osato? Hai intrappolato mio figlio, e ancora ti stupisci? Lui ha una ragazza, una vera, di buona famiglia. Tu… tu sparirai. Subito.”
Io non riuscivo a parlare, stringendomi la pancia.
“Ecco dei soldi. Ti prendi una stanza. Quando inizierà il travaglio, mi chiami. Abbiamo un accordo: il bambino andrà a gente perbene, avrà la vita che merita. Avrai un certificato di morte neonatale, tutto legale. Riceverai un indennizzo. Il taxi ti aspetta. Muoviti.”
Caddi a terra. No, non accettai. Scappai. In silenzio. Senza discutere. Non dissi nulla a Luca. Non volevo distruggere il suo rapporto con la famiglia. Lui era la mia luce.
Il parto arrivò nei tempi previsti. Mi risvegliai con i medici attorno. Uno mi guardò con pena: “Mi dispiace. Era un maschietto. Con gravi malformazioni. Non ce l’ha fatta.” Ma non ci credevo. Lo sapevo: era sano. Avevo fatto tutte le ecografie, tutti gli esami. Era perfetto.
Appena uscita dall’ospedale, corsi da Adriana. La supplicai: dimmi la verità, dov’è mio figlio? Lei mi fissò e chiamò un’ambulanza. Disse che ero instabile. Mi portarono via. Diagnosi: “Reazione acuta da stress”. Passai un mese chiusa in clinica.
Quando tornai fuori, raccontai tutto a Luca. Non mi credette. Disse che ero pazza, che avevo calunniato una santa. Un mese dopo, chiese il divorzio.
Ora vivo in una stanzetta di un appartamento condiviso. Ho perso il lavoro all’istituto d’arte—dopo la cura, non mi rinnovarono il contratto. Faccio lavoretti. A volte bevo. Oggi è il compleanno del mio bambino. Sarebbe nato tre anni fa. E io so che è vivo, da qualche parte. In un’altra casa. E ancora sento la voce di Adriana nelle orecchie: “Sparisci dalla vita di mio figlio. Per sempre.”