Per salvare la salute, ho venduto la casa e sono fuggita altrove.

Al tramonto degli anni, mi ritrovai a fare una scelta disperata: abbandonare tutto e trasferirmi in un’altra città. Non era un semplice cambiamento, ma una vera battaglia per la mia serenità e la mia salute. Quell’evento sconvolse la mia vita, fu doloroso, ma necessario. Non avevo altra via d’uscita.

Mio figlio, Matteo, si sposò tardi, superati già i trent’anni. Ero certa che la sua scelta—Lucia—fosse matura e ponderata. Con mia nuora andavamo d’accordo, senza grande affinità, ma anche senza conflitti aperti. I problemi iniziarono quando la giovane coppia decise di affittare il loro piccolo appartamento e trasferirsi da me, nella mia ampia casa in periferia, ereditata dai genitori. Matteo lo giustificò col bisogno di risparmiare per un mutuo. Nessuno mi chiese il mio parere—mi presentarono il fatto compiuto: «Mamma, ci trasferiamo tra una settimana».

Non protestai, anche se dividere la casa con una famiglia giovane non era nei miei piani. Speravo che mio figlio e sua moglie rispettassero i miei spazi, e che il loro trasloco fosse temporaneo. Ma le mie speranze crollarono come un castello di carte. Lucia si proclamò presto padrona indiscussa. Il suo “regno” si manifestava in piccole cose, ma erano quelle a rendermi la vita impossibile. Le mie creme sparivano dal bagno, i miei vestiti finivano negli angoli più remoti dell’armadio, e gli scaffali che avevo usato per anni si riempivano delle sue scarpe o scatole. La cucina divenne un campo di battaglia. Lucia, alta e imponente, sistemava pentole e piatti in mensole troppo alte per me. Le mie richieste di riportarli al loro posto venivano ignorate, e se li spostavo da sola, il giorno dopo tutto tornava al “posto giusto”.

Cercai di parlarle, ma ogni dialogo finiva allo stesso modo: Lucia si lamentava con Matteo, dicendo che creavo drammi per sciocchezze. Mio figlio prendeva le sue difese, chiedendomi con tono pacato di “non fare storie”. Sentivo che la mia casa non era più mia.

Il culmine arrivò quando Lucia iniziò a organizzare feste rumorose. Ogni settimana, una decina di amici invadevano casa nostra. Musica assordante, risate, chiacchiere fino a notte fonda. Non riuscivo a dormire né a riposare. La goccia che fece traboccare il vaso fu quando mi ammalai di tonsillite. A letto con la febbre, chiesi a Lucia di concludere la serata presto. Mi promise che se ne sarebbero andati “tra poco”, ma il baccano durò ancora due ore. Alla fine, trascinandomi a fatica, uscii in salotto e chiesi agli ospiti di andarsene. Alcuni si vergognarono: “Lucia, perché non ci hai detto che tua suocera stava male?” Se ne andarono in fretta, mentre mia nuora mi lanciò un’occhiaia gelida e li seguì.

Quella sera stessa, Matteo mi chiamò:
«Mamma, ma che scandalo è? Sono solo amici che si divertono. Stai davvero così male?»

Persi la pazienza:
«A nessuno importa come sto, vero? Hai una settimana per trovare un’altra casa. Tornate nel vostro appartamento o cercatene uno nuovo. Non voglio più vivere con voi.»

Tre giorni dopo se ne andarono. Scoprii che il mutuo era già stato approvato e stavano solo ultimando le carte. Partirono in silenzio, con sguardi duri, limitandosi a monosillabi. Lucia, all’ultimo, sibilò un secco: “Arrivederci”.

I rapporti con mio figlio migliorarono solo dopo sei mesi. Seppi che sarei diventata nonna, e questo sciolse il ghiaccio. Mi rallegrai per loro, chiesi notizie della gravidanza, e lentamente ricominciammo a parlare con più calore.

Quando nacque mio nipote, Luca, iniziai a frequentarli spesso, aiutando col bambino. Ma presto il mio sostegno divenne un obbligo. Un giorno annunciai che sarei andata a teatro la sera. Lucia esplose:
«Contavamo su di voi! Avevamo promesso agli amici che saremmo usciti!»

Cercai di spiegare che anch’io avevo una vita, ma ottenni solo silenzi e risposte taglienti.

Poi arrivò un nuovo “disgelo”. Luca cresceva, e i genitori me lo portavano sempre più spesso. Senza preavviso, senza chiedermi se avessi impegni. Lo lasciavano con me per giornate intere, a volte per il weekend, gettandomi pochi euro “per la spesa” e andandosene. Capii che la mia vita non era più mia.

La decisione di trasferirmi maturò lentamente, ma si concretizzò quando realizzai di soffocare in quella dipendenza. Venduta la casa, mi trasferii in una piccola città distante quattrocento chilometri. Ora ci separa la distanza, ed è stata la mia salvezza. Ci vediamo poco, ma i rapporti sono più sereni. Matteo e Lucia, sembra, abbiano finalmente imparato a prendersi le loro responsabilità. Io, invece, ho ritrovato la libertà e la pace che credevo perdute.

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Per salvare la salute, ho venduto la casa e sono fuggita altrove.
«La chiamò serva miserabile e se ne andò con un’altra. Ma al ritorno lo aspettava una sorpresa inaspettata»