«Non permetterò che mia madre finisca in un ospizio!» — la zia, con falsa determinazione, portò la malata nonna a casa sua, ma dopo tre mesi scoprimmo che l’aveva consegnata a una casa di riposo.

«Mai e poi mai permetterò che mia madre finisca in una casa di riposo!» esclamò zia con finto coraggio, prendendo con sé la nonna malata, e tre mesi dopo scoprimmo che l’aveva iscritta a un istituto per anziani.

Non dimenticherò mai il giorno in cui mia zia Emilia, sorella di mia madre, ha portato via nostra nonna Adriana con una scena degna del teatro. Un vero dramma, pieno di frasi ad effetto, accuse e lacrime amare. Quante cose ci ha sentito dire! Urlava così forte che il suo vociferare si diffondeva per tutto il quartiere, come se volesse che ogni abitante del nostro paesino vicino a Bergamo sapesse quanto fosse “virtuosa” e quanto noi, invece, fossimo “senza cuore”.

«Non posso permettere che mia madre marcisca in una residenza per vecchi! Io ho una coscienza, a differenza vostra!» ci gridò in faccia con una tale rabbia che ancora oggi mi vengono i brividi.

Le sue parole sembravano citazioni di un manuale sui valori familiari, ma nascondevano soltanto astio e giudizio. Si dipingeva come un’eroina, mentre noi eravamo dei traditori. Ma la verità? La nonna aveva bisogno di cure serie, e noi non potevamo più fornirgliele.

Tutto iniziò dopo che la nonna ebbe un ictus. La sua salute crollò come un castello di carte: la memoria la tradiva, si perdeva perfino nella sua stanza, scoppiava in lacrime senza motivo e il suo comportamento era un enigma. A volte potevamo gestire la situazione, ma le crisi diventavano sempre più frequenti e pericolose. Una volta rientrammo a casa e trovammo una scena da film dell’orrore: tutte le luci accese, i rubinetti aperti e il gas della cucina lasciato acceso. La nonna era rannicchiata in un angolo, borbottando cose senza senso, senza rendersi conto del pericolo. Per fortuna arrivammo in tempo, altrimenti chissà cosa sarebbe successo.

Dopo l’ennesima visita, il medico ci disse la cruda verità: le condizioni della nonna sarebbero peggiorate. Le medicine potevano rallentare solo un po’ quel declino, ma non c’era speranza di guarigione. Capimmo che non poteva più badare a sé stessa, e noi non potevamo starle accampati giorno e notte. Lavoro, figli, casa… il peso era troppo, e ci sentivamo impotenti.

Dopo lunghe discussioni e lacrime, decidemmo di cercare una buona casa di riposo, dove la nonna avrebbe avuto assistenza professionale e sicurezza. Non volevamo abbandonarla, volevamo darle il meglio possibile. Ma quando zia Emilia, che viveva a Brescia, lo scoprì, arrivò da noi come una furia, pronta a demolire ogni cosa.

«Come vi viene in mente di cacciare vostra madre in un istituto? Ha dei figli, e voi la trattate come un mobile vecchio!» urlava, con gli occhi che sembravano sprizzare scintille.

Le sue parole facevano male come lame. Poi, senza nemmeno ascoltare le nostre spiegazioni, prese la nonna e se ne andò sbattendo la porta così forte che i bicchieri tremolarono. Rimanemmo lì, storditi dal suo sfogo e dalla nostra confusione.

Passarono tre mesi. Tre lunghi mesi di ansia per la nonna. Poi, all’improvviso, ci raggiunse la notizia che ribaltò tutto: zia Emilia aveva iscritto la nonna a una casa di riposo. Sì, proprio quella donna che aveva giurato sulla sua coscienza e ci aveva accusato di crudeltà, non ce l’aveva fatta. A quanto pare, occuparsi di un’anziana malata non era questione di proclami, ma di impegno quotidiano, e lei non era pronta.

L’ironia della sorte mi bruciò come un ferro rovente. Vorrei chiamarla e urlarle: «Dov’è finita la tua santa coscienza, zia Emilia? Dov’è la tua promessa?» Ma non rispondeva al telefono. Forse aveva capito di aver esagerato, che il suo orgoglio le aveva giocato un brutto scherzo. Peccato che non avesse il coraggio di ammetterlo. E così restammo con l’amaro sapore dell’ipocrisia, e la nonna in una stanza sconosciuta, lontana da tutti noi.

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