“Devi occuparti di mia madre! Non c’è nessun altro!” – urlava mio marito.
Mi chiamo Giulia. Mio marito, Marco, mi ha messo di fronte a una scelta insopportabile: prendermi cura di sua madre, colpita da un ictus. Queste parole, pesanti come macigni, mi schiacciano le spalle, e ora mi trovo a un bivio, divisa tra dovere, giustizia e le mie forze. La mia vita sembra sul punto di crollare sotto questo fardello.
Marco ha una sorella, Alessia, ma la sua vita è un vortice continuo. È divorziata, cresce da sola sua figlia e lavora dalla mattina alla sera. Anche Marco torna a casa dopo mezzanotte, sfinito dai turni in fabbrica nella nostra piccola città in Toscana. E io… sono una casalinga. Secondo loro, questo fa di me l’unica che può occuparsi della suocera malata.
Ho supplicato Marco di considerare una casa di riposo o almeno un centro di riabilitazione. Ma lui e Alessia hanno rifiutato le mie parole con ostilità. “Devi occuparti di mamma!” – gridava Marco, la voce tremante di rabbia. – “Tu non lavori! Ho tirato avanti la famiglia per anni, e tu non puoi fare nemmeno questo?” Le sue parole bruciavano come uno schiaffo. Non vedeva quante energie ho dedicato alla nostra famiglia, alla casa, ai nostri figli.
Non è solo la fatica. Mia suocera, Rosaria, è una donna grande, quasi impossibile da sollevare. Prendersi cura di lei da sola è un compito che mi fa tremare di paura. Immagino di doverle cambiare le lenzuola, girarla, aiutarla con l’igiene, e il cuore mi si stringe per l’impotenza. Non possiamo permetterci una badante: nostro figlio, Matteo, sta finendo il liceo, e tutti i soldi vanno ai ripetitori e ai corsi per farlo entrare in un’università prestigiosa. Anche nostra figlia, Sofia, ha bisogno di attenzioni – è in quell’età in cui il sostegno di una madre è fondamentale.
Tra tre giorni Rosaria verrà dimessa dall’ospedale, e Marco ha già deciso: verrà a vivere con noi. Sono terrorizzata. Casa nostra è già piccola, e lui vuole spostare Sofia su un divano letto in cucina per liberare la sua stanza per la madre. Ho provato a oppormi, ma lui ha fatto un gesto di fastidio: “Non se ne parla, Giulia. Mamma verrà con noi”.
Mi sono sposata con Marco a vent’anni. Non ho mai lavorato – mi sono dedicata alla casa e ai figli. È stata una mia scelta, ma credimi, non è stata facile. Quando Matteo e Sofia erano piccoli, correvo come una trottola. Mia madre allora lavorava ancora, e la suocera… non voleva aiutare. “Sono una nonna, non una babysitter”, diceva, arrivando una volta a settimana con un pacchetto di cioccolatini. Giocava un’oretta con i bambini, sorrideva – e tornava a casa. Starci tutto il giorno, prendersi la responsabilità? Non faceva per lei. Me la sono cavata da sola, divisa tra pannolini, pentole e pianti.
Ma quando Alessia ha divorziato, Rosaria si è precipitata ad aiutarla. Stava con sua figlia, cucinava, la sosteneva. E ora che è lei a bisogno di cure, Alessia si tira indietro: “Ho una bambina e un lavoro, Giulia. Non ce la farei”. Invece di aiutare, ha offerto trecento euro al mese – per i pannolini, le medicine e “tutto il necessario”. Una cifra ridicola, che non coprirebbe neanche una minima parte delle spese, figuriamoci i miei nervi e le mie energie.
Con Rosaria non siamo mai state vicine. Non litigavamo, ma non c’era confidenza. Manteneva le distanze, non si intrometteva, e a me andava bene. Ma ora la sua malattia è entrata in casa mia come un ospite indesiderato, e mi sento affogare. Prendermi cura di lei significherebbe rinunciare alla mia vita, al tempo con i figli, a me stessa. Vedo lo sguardo accusatorio di Marco, quello evasivo di Alessia, e capisco: hanno già deciso per me.
Ma dov’è la giustizia? Perché devo essere io a portare questa croce, se Rosaria ha una figlia? Perché il mio lavoro, i miei anni in famiglia, non valgono nulla? Sono sull’orlo del baratro, e nel petto mi ribolle una tempesta. Rifiutarmi vorrebbe dire distruggere la famiglia. Accettare vorrebbe dire perdere me stessa. E non so se ho la forza per scegliere.