Mi chiamo Valeria, e mio marito si chiama Luca. Viviamo insieme da più di dieci anni, ma tutta la nostra vita è stata segnata da un unico grande dolore: non riusciamo ad avere un figlio. Sono rimasta incinta diverse volte, ma ogni tentativo si è concluso con una tragedia: non sono mai riuscita a portare a termine la gravidanza. Negli ultimi cinque anni, perfino la speranza di una gravidanza è svanita. Abbiamo visitato cliniche da Milano a Roma, speso tutti i nostri risparmi, ma i medici potevano solo alzare le spalle. Il mio orologio biologico ticchettava inesorabilmente, e ogni anno il sogno di un figlio nostro diventava sempre più irraggiungibile.
Ci è stato suggerito di adottare, ma Luca era irremovibile: voleva un figlio suo, di sangue. «Potremo adottare quando avremo più di quarant’anni — diceva — ma ora voglio un figlio nostro.» Abbiamo considerato la maternità surrogata, ma i costi erano proibitivi. Cercavo conforto giocando con i miei nipoti, i tre figli di mia sorella Chiara. Li cresceva da sola: ogni suo uomo scappava non appena scopriva della nuova gravidanza. Noi facevamo del nostro meglio per aiutarla, ma la sua vita era un caos che cercavo di ignorare.
Una sera, durante una cena di famiglia nella nostra casa alla periferia di Bologna, si finì a parlare di figli. I miei parenti non sono mai stati delicati, e quella sera le loro parole furono come pugnalate. Scherzavano sul mio «orologio biologico ormai rotto», ci rimproveravano perché non adottavamo un bambino «che non fosse nostro», e ripetevano che non potevamo permetterci di essere schizzinosi. Ogni parola mi feriva. Restavo in silenzio, inghiottendo le lacrime, mentre Luca cercava di difenderci, sapendo quanto quel tema mi facesse male.
All’improvviso, Chiara, la mia sorella minore, sbottò: «Perché pagare una sconosciuta? Posso farlo io! Vi costerà meno, e io ci guadagno qualcosa. Sarà vostro figlio, e io partorisco benissimo — avete visto i miei ragazzi. È tutto semplice, ci accordiamo in famiglia.» Le sue parole rimasero sospese nell’aria. Io e Luca rimanemmo muti, senza sapere come reagire. I parenti subito afferrarono l’idea, spiegando quanto fosse conveniente. Mormorammo che ci avremmo pensato e cambiammo argomento. Ma non c’era nulla da pensare.
L’idea di Chiara mi spaventava. Prima di tutto, aveva uno stile di vita poco sano: fumava, beveva, mangiava male. Dubitavo che potesse portare avanti una gravidanza senza rischi. Poi, avrebbe visto il bambino di continuo — eravamo una famiglia. E se si fosse affezionata? E se avesse deciso di tenerlo o avesse voluto imporsi nell’educazione? E i soldi? I soldi fra parenti sono sempre la ricetta per i litigi. Chiara avrebbe potuto chiedere di più, ricattandoci con il bambino. Infine, non avremmo potuto controllarla durante la gravidanza. Con i suoi figli, le avevamo chiesto di smettere di fumare, ma si era limitata a sbuffare: «So io cosa mi fa bene.»
Tornati a casa, io e Luca ne parlammo. La decisione fu unanime: avremmo rifiutato. Volevamo un figlio nostro, non intrighi familiari. Il mattino dopo, Chiara chiamò, convinta del nostro sì, già pronta a spendere i soldi. Le dissi con delicatezza che volevamo provare ancora da soli, senza aiuti. La sua voce divenne gelida. «Siete degli ingrati! — urlò. — Non avrete mai un figlio vostro, vedrete! Vi toccherà prendere un trovatello da qualche orfanotrofio!» Le sue parole mi trafissero il cuore, e caddi di nuovo nella depressione.
Ma era solo l’inizio. Chiara mise tutta la famiglia contro di noi. Un parente dopo l’altro ci chiamava per insultarci: «Come avete potuto rifiutare un’offerta così generosa? Lei si sacrificherebbe per voi, e voi fate i difficili!» Tutti si sentivano in dovere di umiliarci, ricordandoci la nostra sterilità. Mia madre stava dalla parte di Chiara, e i loro attacchi divennero insopportabili. Luca cercava di difendermi, ma vedevo quanto anche lui fosse ormai esausto.
Col tempo, gli altri parenti si calmarono, ma Chiara e mia madre continuano la loro guerra. Le loro telefonate sono un promemoria della nostra sofferenza. Penso sempre più all’adozione, ma la paura del giudizio e delle pressioni mi paralizza. Luca mi sostiene, ma sento che questa ferita non guarirà mai. Il rifiuto a Chiara non è stato solo una scelta, ma il momento che ha distrutto la nostra famiglia, lasciandoci soli con il nostro sogno impossibile.
A volte, ciò che sembra la soluzione più semplice si rivela la più dolorosa. E l’amore, quando diventa una merce di scambio, smette di essere amore.