«Non permetterò che mia madre finisca in una casa di riposo!» — urlò la zia con falso coraggio, prendendo con sé la nonna malata, e tre mesi dopo scoprimmo che l’aveva abbandonata in un istituto per anziani.
Non dimenticherò mai il giorno in cui mia zia Silvia, sorella di mia madre, con teatralità esasperante, portò a casa nostra la nonna malata, Gina. Fu uno spettacolo grottesco, pieno di frasi ad effetto, accuse e lacrime amare. Quante parole crudeli ci lanciò addosso! Gridava così forte che la sua voce sembrava riecheggiare per ogni vicolo del nostro paesino vicino a Bergamo, come se volesse che tutti i vicini sapessero quanto fosse «giusta» e quanto noi, invece, fossimo «senza cuore».
— Non lascerò che mia madre marcisca in un ospizio! Io ho una coscienza, a differenza vostra! — ci sibilò in faccia con una rabbia che, ancora oggi, mi fa rabbrividire.
Le sue parole sembravano citazioni strappate da un manuale di moralità, ma sotto c’erano solo astio e disprezzo. Si dipingeva come un’eroina, mentre noi diventavamo i traditori. Ma la verità era un’altra: la nonna aveva davvero bisogno di cure che non potevamo più darle.
Tutto iniziò dopo che la nonna ebbe un ictus. La sua salute crollò come un castello di carte: la memoria svaniva, si perdeva nella sua stessa stanza, piangeva senza motivo, e il suo comportamento era un enigma. A volte riuscivamo a gestirla, ma gli episodi diventavano sempre più frequenti e pericolosi. Una volta tornammo a casa e trovammo una scena da incubo: tutte le luci accese, l’acqua dei rubinetti che scorreva a fiumi, il gas aperto. La nonna era accucciata in un angolo, borbottando, senza capire di aver quasi causato un disastro. Per fortuna arrivammo in tempo, altrimenti sarebbe finita male.
Dopo l’ennesima visita dal dottore, ci dissero la cruda verità: le condizioni della nonna sarebbero solo peggiorate. Le medicine potevano rallentare quel declino, ma niente più. Capimmo che non poteva più badare a sé stessa, e noi non potevamo starle sempre accanto. Lavoro, bambini, vita quotidiana — tutto ci schiacciava, e il cuore si spezzava per l’impotenza.
Dopo lunghe discussioni e lacrime, decidemmo di cercare una buona casa di riposo, dove la nonna avrebbe avuto assistenza professionale, sicurezza e conforto. Non volevamo abbandonarla — volevamo darle il meglio possibile. Ma quando la zia Silvia, che viveva a Brescia, lo scoprì, piombò da noi come una furia, pronta a distruggere tutto.
— Come vi viene in mente di cacciare vostra madre in un ospizio? Ha dei figli, e voi la trattate come un mobile vecchio! — urlò, con gli occhi pieni di disprezzo.
Le sue parole tagliavano come lame. Poi, senza ascoltare le nostre ragioni, strappò via la nonna e sbatté la porta con tale forza che i vetri tremarono. Restammo lì, storditi dal suo furore e dalla nostra confusione.
Passarono tre mesi. Tre lunghissimi mesi di ansia per la nonna. Poi, all’improvviso, ci giunse la notizia che ribaltò tutto: la zia Silvia aveva messo la nonna in una residenza per anziani. Sì, proprio lei, quella che si vantava della sua coscienza e ci accusava di crudeltà, non aveva retto. Scoprimmo che occuparsi di una vecchia malata non era questione di grandi discorsi, ma di fatica quotidiana, e lei non era pronta.
L’ironia della sorte mi bruciò come ferro rovente. Avrei voluto chiamarla e urlarle: «Dov’è finita la tua coscienza, zia Silvia? Dov’è la tua promessa?» Ma non rispondeva al telefono. Forse aveva capito di essere andata troppo oltre, che il suo orgoglio l’aveva ingannata. Peccato che non avesse il coraggio di ammetterlo. Restammo con l’amaro sapore della sua ipocrisia, e la nonna — tra quattro mura estranee, lontana da tutti noi.