Mia suocera mi ha detto che sarebbe andata in ospedale per un problema al cuore… e invece è tornata con un neonato tra le braccia.
Con Matteo siamo insieme da quasi sette anni. Ci siamo conosciuti all’università, quando vivevamo nello stesso studentato a Firenze. Io al terzo piano, lui al quarto. Matteo arrivava sempre con scatole piene di cibo: sughi fatti in casa, polpette fragranti e torte ancora calde. Sua madre, Luisa Rossi, aveva davvero il dono della cucina, e si vedeva quanto amasse suo figlio.
Quando Matteo mi ha chiesto di sposarlo, ero nervosa all’idea di conoscere sua madre. Ma è andata molto meglio del previsto. Luisa si è rivelata una persona straordinaria, semplice e genuina. Sorridente, con occhi vivaci e una forza interiore che traspariva. Aveva avuto Matteo a soli diciotto anni, e sei mesi dopo era rimasta vedova. Giovane e sola, l’ha cresciuto da sé, facendone un uomo vero.
La prima volta che l’ho vista, aveva appena quarant’anni ma sembrava molto più giovane. Elegante, dinamica, piena di vita, non corrispondeva affatto allo stereotipo della suocera severa. Mi ha stretto la mano e ha detto: “Bene, ora ti affido mio figlio. Abbi cura di lui.”
Dopo la laurea, io e Matteo ci siamo sposati in una cerimonia intima e siamo rimasti a vivere nella sua città. Lui ha trovato un ottimo lavoro, e abbiamo preso un appartamento vicino a quello di Luisa. Subito ci ha rassicurati: “Non preoccupatevi per me. Sono indipendente, non venite a vivere qui. Ho la mia vita e amo la mia solitudine.”
Era sempre impegnata: teatro, mostre, cene con le amiche, passeggiate al tramonto. Ma non ci ha mai trascurati. A volte arrivava con dolci appena sfornati, lodava i miei tentativi in cucina e mi aiutava persino a preparare la cena. Non potevo chiedere di meglio.
Quando è nato nostro figlio Luca, Luisa ci ha sostenuti in tutto: mi insegnava a fare il bagnetto al neonato, portava il passeggino al parco, ci dava il tempo di riposare. Era la nonna perfetta.
Poi, però, ha iniziato a distanziarsi. Non veniva più a trovarci, non ci invitava. Matteo la chiamava e lei diceva di essere andata a stare da un’amica a Bologna per “prendersi una pausa”. Era tipico del suo carattere impulsivo, ma comunque strano. Alle videchiamate chiedeva di vedere Luca, ma evitava di mostrarsi. Le chiedevo: “Stai davvero bene?” e lei rispondeva ridendo: “Certo, solo che senza trucco faccio paura!”
Poi un giorno ci ha confessato di essere tornata in città e di essere ricoverata in ospedale — “un problema di cuore”. Volevamo correre da lei, ma ci ha fermati: “No, vi chiamo quando esco. Ci vedremo allora.”
Dopo qualche giorno ci ha invitati a casa sua. Siamo andati. Ad aprirci c’era un uomo che non conoscevo, e dietro di lui, Luisa. Raggiante, ringiovanita, con un neonato in braccio.
“Ecco, vi presento Marco. Ci siamo sposati. E questa è nostra figlia, Giulia. Non ve l’ho detto prima perché temevo il vostro giudizio. Ho quarantasette anni, dopotutto…”
L’ho guardata e non credevo ai miei occhi. Non per lo shock, ma per l’ammirazione. Questa donna, che era stata il nostro sostegno, aveva trovato la sua felicità. L’ho abbracciata e ho pianto. Di gioia.
Ora aiuto Luisa con la piccola Giulia, come lei ha fatto con noi quando è nato Luca. Ci vediamo spesso, passeggiamo insieme, festeggiamo ogni occasione. E ho capito una cosa: la felicità non guarda l’età. Arriva quando siamo pronti ad accoglierla. E mia suocera ne è la prova.