Oggi ho deciso di parlare con mio ex marito riguardo nostro figlio. Non ce la faccio più.
Mio figlio ha 12 anni. Se dieci anni fa qualcuno mi avesse detto che un giorno avrei pensato di lasciarlo con suo padre, l’avrei preso per pazzo. Eppure, eccomi qui, sull’orlo del baratro, soffocata dall’impotenza, sentendo la vita scivolare via goccia a goccia. Affogo, e nessuno mi getta un salvagente.
Luca, mio figlio, è diventato un estraneo. Contesta ogni mia parola, si azzuffa a scuola, riporta a casa oggetti che non sono suoi e poi, con un sorriso sfrontato, dice che non è furto, ma solo “preso in prestito”. Il telefono squilla in continuazione: la maestra, il preside, i genitori dei compagni. Ogni chiamata è un pugno nello stomaco, ogni giorno è come camminare su un campo minato.
Io e mio marito siamo divorziati da anni. Mia madre vive nel palazzo accanto, qui nel nostro paesino vicino a Verona, ma non mi aiuta mai. Solo critiche e “consigli saggi” che mi fanno venire voglia di urlare. La sera passa per mezz’ora, mi riempie di rimproveri e se ne va, lasciandomi un sapore amaro in bocca. Quindi Luca è tutto sulle mie spalle. Urlo, piango, minaccio, gli tolgo la paghetta… tutto inutile. Mi fissa con occhi sfacciati, sorride come se sapesse che sono impotente, che le mie parole sono vento.
Pochi giorni fa è successo di nuovo. Ho trovato nel suo zaino uno smartphone costoso, chiaramente non suo.
“Luca, da dove viene questo?” ho chiesto, con uno sguardo che mescolava rabbia e disperazione.
“L’ho trovato,” ha risposto, impassibile.
“Dove?”
“Su una panchina.”
“Quale panchina, diamine?! Rispondi come si deve, piccolo delinquente!” ho esploso. “Sai che è roba altrui? L’hai rubato!”
“Non rubato, preso,” ha detto con calma.
“E che volevi farci?”
“Niente,” ha scrollato le spalle. “Volevo solo guardarlo.”
La rabbia mi ha soffocato, sentivo il sangue ribollire.
“Non si fa così! Non è tuo! Domani lo riporti a scuola!” ho ordinato.
Mi ha fissato, sfidandomi con uno sguardo che mi ha fatto tremare le mani.
“Non ci vado.”
“Come ‘non ci vao’?! Non decidi tu!” ho urlato, perdendo il controllo.
“Non ci vado e basta.”
Non ce l’ho fatta. Sono scoppiata a piangere, mentre lui se ne andava in camera sua, come se niente fosse, come se le mie lacrime fossero aria.
Il giorno dopo ho chiamato suo padre, Matteo. La voce mi tremava, ma gli ho detto tutto:
“È per Luca. Non ce la faccio più. Ruba, risponde male. Forse dovresti prenderlo tu. Ha bisogno di una figura maschile. Ho paura che lo stiamo perdendo.”
Silenzio. Poi un sospiro pesante.
“Sai che non posso. Lavoro fino a tardi, non ho tempo.”
“E io sì?! Ho bisogno di aiuto! Solo mia madre mi critica, tu sei occupato… chi mi aiuta?!”
“Ma sei sua madre…” ha iniziato.
“E tu sei suo padre!” l’ho interrotto. “Abbiamo la stessa responsabilità!”
Ha borbottato qualcosa sul “ci penserò” e ha riattaccato. Quella sera è arrivata mia madre. Ho provato a parlarle, ma è stato un disastro.
“Claudia, sei impazzita?! Lasciare tuo figlio con suo padre? Ma come ti viene in mente?” ha urlato.
“Mamma, non ce la faccio. Sono sola, non ho energie.”
“Non ce la fai? Se l’hai fatto, lo cresci! Che madre sei?”
“E tu quando mi hai aiutato?! Solo parole! Sono sempre io che faccio tutto!”
Sei n’è andata sbattendo la porta, lasciandomi in cucina, persa nel vuoto. Forse davvero sono una cattiva madre? Forse è colpa mia se Luca è così? Ma poi penso: sono umana, non di ferro. Sono stanca di fare sia la madre che il padre, stanca di portare questo peso.
Ma ora Luca non esce dalla sua camera, mi evita. Io guardo il telefono, sperando che Matteo chiami diE forse, alla fine, il vero fallimento non è ammettere di non farcela, ma fingere ancora di poter salvare tutto da soli.